Ansel Adams: “La natura è il mio regno”

On 17/10/2011 by Nicola Focci

Un’occasione unica: la mostra di Ansel Adams promossa a Modena da Fondazione Fotografia. Si tratta della prima mostra a lui interamente riservata qui in Italia, e per giunta a poche decine di chilometri da casa! Non potevo mancare.

Le stampe, tutte ai sali d’argento, sono originali e firmate dal grande fotografo (non ho resistito alla tentazione di portare a casa un “souvenir” di questa firma!).

La prima e anche più banale impressione, è sulle stampe in sé: di una nitidezza imbarazzante. Da quanto sono reali, sembra d’esser lì, davanti a quegli straordinari panorami. O se vogliamo meno prosaicamente, sembra di guardare un moderno schermo HDMI.

Mi soffermo a guardarle, leggendo attentamente le (ottime) didascalie che spiegano la genesi di ciascun gruppo di foto. Guardo i video: Adams che cammina su un manto nevoso inclinato aiutandosi con una corda, Adams che porta sulle spalle la sua fotocamera inerpicandosi per un sentiero, Adams che parla dei luoghi e lo fa con una luce scintillante negli occhi.

A proposito di questo, subentra – dopo la prima impressione di nitidezza – una consapevolezza… e non è quella scontata sulla tecnica e il sistema zonale (e di quanto queste foto rendano ridicoli gli HDR digitali), quanto un discorso sull’amore per i soggetti che si rappresentano.

Io credo, infatti, che solo un enorme amore per la natura può portare a scatti così perfetti e splendidi. E non c’è dubbio che Adams adorasse quei posti: non si stancava mai di fotografarli, e sembra quasi d’esser di fronte ai ritratti che un uomo fa della sua innamorata.

Sarebbe facile dire che era agevolato da panorami di per sé eccezionali come quelli del Yosemite e di analoghi parchi naturali americani. Ma scommetto che intere pletore di fotografi hanno cercato inutilmente di emulare i suoi scatti, magari piazzando i loro treppiedi nello stesso punto. Non è facile amare la natura in questo modo; non è da tutti.

Certo, c’è la tecnica: il sistema zonale, e quant’altro. Ma quello è uno strumento, non il fine.

Ad ogni saletta (la mostra è organizzata in modo impeccabile) cerco la “famigerata” Moonrise over Hernandez, che mi incuriosisce moltissimo, e non vedo l’ora di gustare “dal vivo” dopo averla vista tante volte su una pagina web. All’improvviso, eccola lì. Quelle nuvole bianche e quelle croci bianche… incredibili. E’ un paesaggio che, nella realtà, non può esistere. La stampa diretta da negativo – senza le sue “magie” in camera oscura – è molto diversa.

Ansel Adams e le due "Moonrise".

Splendido esempio di “visualizzazione”: il soggetto rappresentato per come lo ha visto l’artista, e non per come realmente era.

Man mano che mi sposto per i corridoi della mostra, divoro letteralmente i suoi scatti. Come Monolith 1927, altro esempio da manuale della visualizzazione  (visualizzo il cielo nero, uso il filtro rosso per ottenerlo). Oppure On the heights Yosemite 1927, che Adams stesso definisce <<Immagine confusa perché priva di un soggetto predominante>> (un’altra bella lezione). Jeffrey Pine 1945 è splendida, una delle mie preferite; da qualche parte ho letto che questo pino non c’è più, è caduto negli anni ’70… ma non è affatto “morto”: vive ancora – e vivrà per sempre – in questo scatto.

Certo, la sua tecnica è umiliante. Difficile non prenderne coscienza. Ma non è la prima cosa a cui penso. Continuo infatti a rilfettere sull’amore per i soggetti: ad ogni foto, questo messaggio è per me sempre più evidente.

Altra cosa che apprezzo in Adams: era un uomo che amava le sfide. Scrive che la neve è difficilissima da fotografare, eppure è presente in parecchie sue opere, è un soggetto ricorrente. Ovviamente, in modo impeccabile.

Passo dal bookshop e acquisto il fotolibro: è inevitabile, per me è come un piccolo “trofeo di caccia”, o se vogliamo un modo per portare con me queste sensazioni e riviverle dopo , un po’ come una scatola di cioccolatini che si apre e si gusta con calma.

In autostrada, mentre torno a casa, medito sull’insegnamento. Perché credo che qualunque mostra debba fornirne uno. Credo che sia importante uscire dalla mostra un po’ più ricchi di come si è entrati.

Non credo che – anche con la migliore delle attrezzature – si riescano a fare fotografie convincenti di soggetti che non convincono. Bisogna amare quello che si fotografa, punto. E’ una riflessione che credo aiuti ad ottimizzare il proprio tempo, ed aumentare la qualità di ciò che si scatta.

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