Il connubio tra arte e disagio (parte 1): Diane Arbus

On 03/02/2014 by Nicola Focci

Quando partecipai al suo workshop, Francesco Jodice raccontò un aneddoto del padre Mimmo: in camera oscura aveva un cartello con sopra la scritta

“Non c’è arte senza disagio”

Infondo,  è proprio vero: il disagio può fungere da accelerante per l’arte. Il disagio può agire come il granello di polvere che s’infila nell’ostrica. Provoca irritazione, e l’animale si difende producendo la ricopertura. Il risultato, naturalmente, è la perla.

Un buon punto di partenza per i nostri progetti fotografici potrebbe proprio essere questo: cosa ci crea disagio? Cosa ci affligge? Cosa ci ossessiona?

Avevo già trattato questo tema (“Arte e disagio”) parlando di Pink Floyd, Mario Giacomelli, e Diane Arbus. Lo riprendo a mano approfondendo quest’ultima artista, ed aggiungendone (nel prossimo post) un’altra: Francesca Woodman.

Le due in comune hanno – oltre alla tragica fine – proprio la fonte della loro straordinarie fotografie: un disagio, un’ossessione, un vuoto interno incolmabile.

Nascono in epoche diverse (la Arbus nel 1923, la Woodman nel 1958) e anche da famiglie diverse: Diane era figlia di ricchi imprenditori d’origine ebraica, mentre Francesca era figlia di artisti.

Diane si sposò ed ebbe due figlie, mentre a Francesca mancò il tempo.

New York fa da triste sfondo alla fine di entrambe, morte per suicidio: Diane nel 1971 a 48 anni, Francesca nel 1981 a 22 anni.

La “fotografa dei mostri”

Ritrarre qualcuno, è come sedurlo (Diane Arbus)

Ecco quattro fotografie tra le più famose dell’artista newyorchese:

Diane Arbus, Child with Toy Hand Grenade in Central Park, 1962

Diane Arbus, “Child with Toy Hand Grenade in Central Park”, 1962

(“Bambino con granata giocattolo a Central Park”). Particolarmente interessante il provino a contatto di questa fotografia: dimostra come l’artista abbia atteso la strana espressione (e la mano ad artiglio!) nel bambino, portandolo con una lunga seduta di scatto all’esasperazione.

Diane Arbus, "Jewish Giant at Home with His Parents in The Bronx", 1970

Diane Arbus, “Jewish Giant at Home with His Parents in The Bronx”, 1970

(“Ebreo gigante a casa con i genitori nel Bronx”). La Arbus rimase particolarmente colpita dall’espressione della madre del “gigante”. Disse:

Ogni madre incinta ha il terrore che le nasca un figlio deforme; e io credo di averlo colto nell’espressione di questa donna, che sembra pensare: ‘Oh mio Dio, no!!’

Mexican dwarf in his hotel room in N.Y.C., 1970

Mexican dwarf in his hotel room in N.Y.C., 1970

(“Nano messicano nella sua stanza di albergo a NYC”). In questo scatto si percepisce una notevole intimità tra fotografo e soggetto: viene subito alla mente la citazione precedente della Arbus, circa il fatto che fotografare qualcuno è come sedurlo.

Diane Arbus, “Identical twins, Roselle, N.J.”,1967

(“Gemelle identiche”). Di quest’ultima foto, nello specifico, ho già scritto nel post citato all’inizio, e soprattutto in  “Dietro le quinte – Identical Twins” cui rimando per i dettagli.

Diane Arbus era magneticamente attratta dall’inusuale, dall’aberrante, dallo stonato, dal perverso. Si spingeva sino nei bassi fondi di New York (quella degli anni ’60, non certo quella odierna) per cercare i cosiddetti freaks: derelitti, segregati, deformi… Oppure drammatizzava persone apparentemente normali in contesti apparentemente normali, come il bambino con la granata in Central Park, la coppia nel giardino di casa, i nudisti nel loro salotto.

Quale il motivo di tale attrazione? Arbus disse che i “mostri” erano “aristocratici”, in quanto avevano <<già superato il loro test per la vita>>. Queste persone cioè avrebbero già sperimentato gli eventi traumatici della vita, e quindi possono guardare alla stessa con disillusione e distacco... al contrario delle persone “normali”.

Difficilmente avrebbe quindi fotografato un’incidente o una scena truculenta di guerra: come scrive Susan Sontag, Diane Arbus <<si era specializzata in lenti tracolli personali, le cui origini risalivano in genere alla nascita del soggetto>>.

In queste immagini non c’è il minimo sentore di empatia o pietismo. Non c’è quindi la compassione nel senso latino del “patire-con”. La Arbus, anzi, a volte arrivava a sfinire i suoi soggetti; ricorda Germaine Greer (una femminista di spicco che la Arbus ritrasse poche settimane prima della morte):

Continuava a farmi ogni sorta di domanda personale, e mi resi conto che lei avrebbe scattato solo quando il mio viso avrebbe mostrato tensione o ansietà o tedio o fastidio (e posso assicurare che ce n’era un bel po’, di tutto). Ma siccome era una donna, non le dissi di andarsene affanculo. Fosse stata un uomo, l’avrei presa a calci nelle palle.

Dal punto di vista tecnico, la posa è quasi sempre frontale, il che è tipico delle fotografie di cerimonia… e ciò di sicuro contribuisce (insieme al candore e all’affabilità del soggetto) a rendere il suo lavoro così impressionante. La composizione sembra poco curata (i piedi delle gemelle sono tagliati), ma la Arbus disponeva di un solido background, avendo cominciato come ritrattista di moda; la cosa deve quindi essere necessariamente voluta.

Voluta fu anche la scelta del formato quadrato e del flash, in un periodo in cui gli street photographers come Garry Winogrand (del quale peraltro era amico) usavano la Leica 35mm e “tiravano” le pellicole.

Diane Arbus ritratta in Central Park da Garry Winogrand, 1969

Diane Arbus ritratta in Central Park da Garry Winogrand, 1969

La fotocamera era, per Diane Arbus, una sorta corazza. Anche per questo usava apparecchi ingombranti; dietro di essi, si sentiva protetta:

Non ho paura quando guardo il vetro smerigliato. Una persona potrebbe avanzare verso di me con un revolver; avrei i miei occhi incollati al visore, e sarebbe come se non potessi essere vulnerabile.

Era una persona di grande forza artistica, ma di altrettanto grande debolezza psichica.

Il suo corpo fu trovato il 28 Luglio 1971 nella sua vasca da bagno, in avanzato stato di decomposizione, i polsi tagliati. Sulla scrivania, l’agenda era aperta al giorno 26 Luglio con sopra scarabocchiato: <<L’ultima cena>>.

Negli ultimi tempi le si sentiva ripetere spesso che <<il mio lavoro non fa più per me>>Forse, aveva perso l’interesse della scoperta: il che è una vera tragedia l’artista. Non c’era più ciò che le consentiva di sentirsi viva, di combattere la sua depressione.

O forse cominciava a patire troppo le pressioni che derivano dalla fama e dall’etichetta di “fotografa dei mostri”, che inevitabilmente le si era appiccicata addosso. (I genitori delle “gemelle identiche” protestarono quando la foto fu esibita nel 1967 al MoMA, e cercarono di farla rimuovere).

Tutte ipotesi… dal momento che Diane Arbus non lasciò nulla per spiegare il gesto finale.

Richard Avedon, che la conosceva piuttosto bene, disse:

Non vi fu nulla fortuito o ordinario nella sua vita, nelle sue fotografie, nella sua morte. Erano misteriose e inimmaginabili… eccetto che a lei.
Capita, quando si ha a che fare con un genio.


Fonti:

  • Patricia Bosworth, “Diane Arbus – a biography”, Open Road NY
  • Francesca Alimovi/Claudio Marra, “La fotografia. Illusione o rivelazione?”, Editrice Quinlan
  • Susan Sontag, “Sulla Fotografia”, Piccola Biblioteca Einaudi

La seconda parte di questo articolo: “Il Connubio Tra Arte E Disagio (Parte 2): Francesca Woodman”

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