I progetti del dolore

On 03/03/2014 by Nicola Focci

 

Ultimamente mi sono imbattuto in alcuni “progetti fotografici del dolore“, quel genere di reportage che analizza situazioni gravose per le persone ritratte ed i suoi cari, portando alla luce problemi anche gravi.

Ne cito solo tre:


Vincitore del World Press Photo 2013 nella categoria “Daily Life”, racconta la storia di una donna (Mirella appunto) che accudisce per sei anni il marito malato di Alzheimer.

“La battaglia che non abbiamo scelto” racconta la storia di una donna affetta da cancro al seno attraverso le fotografie del marito.

Il fotografo ritrae il proprio bambino autistico alle prese con il suo modo di esprimersi e comunicare.


Formalmente, trovo che le fotografie di questi progetti siano tutte molto ben fatte, ma non è questo il punto.

Credo sinceramente alla bona fides di chi li ha realizzati, spesso emotivamente molto coinvolto. Scrive Angelo Merendino:

La nostra speranza era questa: se la famiglia e gli amici avessero visto cosa dovevamo affrontare giornalmente, allora forse avrebbero avuto una migliore comprensione della sfida che stavamo portando avanti nelle nostre vite. Non c’era alcuna intenzione di farne un libro o una mostra: queste fotografie sono nate e furono realizzate per pura necessità.

Riconosco altresì l’utilità di questi progetti nel portare l’attenzione su problematiche concrete e spesso ignorate, come può essere non solo la vita di un paziente affetto da grave malattia, ma anche quella dei suoi cari che lo circondano.

Ciononostante, questi progetti mi danno un forte senso di disagio.

Certo, la fotografia è una forma di comunicazione. Bisogna avere qualcosa da dire, altrimenti si producono immagini vuote (“da camera d’albergo” dico io) e tanto vale darsi agli scacchi o ad altre cose! Però io credo nel est modus in rebus: c’è modo e modo.

Una determinata dimensione profonda del dolore, secondo me, deve rimanere privata.

E’ una sfera troppo intima. Non si può sempre scavare a fondo ed a piacere. Qualche volta è opportuno fermarsi… E trovare un altro modo per dire quello che si vuole dire.

So benissimo che molti grandi fotografi hanno “usato” il dolore altrui per buttare fuori i propri fantasmi e le proprie paure: penso a Mario Giacomelli e al suo “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Infondo, questi grandi artisti fanno come John Coffey (e mi si perdoni la citazione che a tanti apparirà poco dotta), il protagonista del “Il Miglio Verde” di Stephen King: risucchiano il dolore dentro di sé – dentro all’apparecchio fotografico – e lo “sputano” fuori, lo mostrano al mondo.

Solo che poi ne “Il Miglio Verde” qualcuno guarisce: c’è una finalità positiva sulla persona. E non sono sicuro che la stessa cosa possa dirsi nei confronti dei soggetti di questi progetti (della loro dignità come persone prima ancora che come malati).

Probabilmente sono ingenuo o puritano o limitato o chissà cos’altro. Ma io credo fermamente nel valore positivo della fotografia. Io penso che non debba limitarsi ad “informare e basta”, ma debba “informare in modo positivo”. Debba fornire all’osservatore un eterno presente in cui possa immergersi; e credo che a pochi piaccia farlo nel dolore.

Le vita è già sufficientemente complicata senza che qualcuno debba ricordarcelo!

 

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