Archeologia industriale

On 30/05/2014 by Nicola Focci

Per un paio di anni, ho avuto anche io la passione per le vecchie fabbriche dismesse e gli edifici cadenti, ovvero la cosiddetta fotografia di archeologia industriale.

Non è passato tanto tempo… però, fotograficamente parlando, mi sembra un decennio.

All’epoca avevo un atteggiamento molto più “goloso” e meno razionale (o se vogliamo “artistico”). Oggi, in effetti, quel tipo di frequentazione mi sembra un po’ fine a se stessa – se non c’è dietro qualcosa di serio, e non è nei miei interessi.

Fatto sta che tre posti, in particolare, mi sono “rimasti” a sufficienza per parlarne davvero.

(NB – Un clic sulle foto rimanda al relativo set Flickr con tutti gli scatti).

Il mostro di Casalecchio

Più che una fabbrica abbandonata, questo (enorme) edificio è un cumulo di macerie con una storia curiosa.

Lungo 100 metri e alto 5 piani, era destinato ad essere un collegio dei Padri Passionisti col nome di ‘Istituto del fanciullo’. La vista dall’alto dimostra l’imponenza del complesso:

Il 'Mostro'. La freccia indica la sala della prima foto.

Il ‘Mostro’. La freccia gialla indica la sala della prima foto.

La costruzione iniziò nel 1964, ma si arrestò qualche anno dopo: le vocazioni crollarono, e con esse l’esigenza di avere una tale struttura. Che fu abbandonata a se stessa… e giace tutt’ora così, meta dei graffittari e dei guerrieri urbani con pistole ad aria compressa. Non oso immaginare quanto possa costare demolirla e smaltirla.

Vi sono andato almeno tre volte con amici diversi, perché accedervi era piuttosto facile (allora, oggi non so). Ma non è che fosse rimasto granché. Più che altro era un “cult” della zona… un po’ come dire: se vai a Riccione, un giro su Viale Ceccarini devi pur farcelo!

L’ex zuccherificio

Qui invece era rimasto in piedi qualcosa in più. Ci sono andato con Luca, un mio caro amico ed ex compagno di studi.

Abbiamo impiegato un po’ a trovare il varco per entrare. Ci siamo infilati in una sorta di bosco fitto fitto, raggiungendo la rete; e poi siamo arrivati ad un punto in cui era stata bucata e piegata. Il complesso era enorme e la palazzina degli uffici zeppa di pallini bianchi: le guerre ad aria compressa erano arrivate anche qui!

Ricordo che vi portai la piccola Fuji X10, che se la cavò davvero niente male.

Salimmo anche sul tetto e il panorama era bello. Desolante, ma  affascinante. Si vedeva bene l’enorme parcheggio: i posti macchina invasi dalle erbacce, e il “gabbiotto” dell’inserviente con i vetri sfondati.

Vi si arrivava con una scala a chioccola pericolante che ad ogni gradino mi faceva dire: meno male che siamo in due!…

La fabbrica Caproni

Questo è un posto curioso, in un paese altrettanto curioso e cioè Predappio. Ne ho anche già parlato sul blog.

Io e Luca ci andammo soprattutto dopo aver visto in rete quella parete “Duce Duce Duce” così assurda oggi giorno (o forse no)… cui poi siamo giunti anche noi. La foto non rende l’idea del buio che c’era lì dentro!

Ricordo che inizialmente pensammo di entrare dal retro, e ci arrampicammo su una specie di sponda fangosa e boscosa. Dopo venti minuti avevamo fatto pochi metri ed eravamo sudati e sporchi! Io mi ero pure graffiato una mano, mentre Luca era stato più furbo ed aveva i guanti.

Al che abbiamo messo da parte gli scrupoli e siamo entrati dalla parte anteriore, aprendo un temporaneo varco nella rete da cantiere.

Avevo anche la Leicaflex a pellicola ma non ci ho tirato fuori granché. In questi posti ho sempre avuto molta fretta, come se mi sentissi in colpa e avessi paura di essere colto in flagrante. La fretta è la peggiore consigliera della fotografia analogica.

Cui prodest?

In seguito, a un workshop, ho conosciuto un tizio che era un vero professionista di questo genere fotografico.

Andammo a pranzo insieme e mi spiegò tutte le tattiche che usava coi suoi amici. A volte corrompeva persino il custode:

Gli allunghi 20 euro e quello ti fa entrare, basta che non fai casino ed è facile come bere un bicchier d’acqua.

Gli parlai di una vecchia cartiera abbandonata vicino al mio paese, dove mi sarebbe piaciuto andare.

La conosco!, ci sono stato.

Guarda, è facile: la vigilanza entra nel piazzale e fa un giro lento. Poi se ne va.

Noi eravamo dentro ma avevamo un ‘palo’ fuori dalla fabbrica che col walkie-talkie ci avvisava; andavamo a nasconderci e aspettavamo che la guardia andasse via.

Lo ascoltavo con un misto di ammirazione e disapprovazione.

Chissà quanti posti così avete visto!, gli dissi.

Eh, tantissimi… però guarda: ormai sono inflazionati. Son peggio del Colosseo: entrano ed escono tutti. Facile che ti trovi un fotografo con delle donne nude. O una colonia di zingari.

Io ti consiglio di lasciar perdere.

Cioè: vacci solo se hai un progetto serio.

Fu un buon suggerimento, a ben pensare.

 

One Response to “Archeologia industriale”

  • Strano… Anche io ho fatto un percorso simile al tuo sull’archeologia industriale e sono giunto pressoché alle tue stesse conclusioni avendo però visitato molti meno luoghi di te. In genere ero mosso dalle storie che i luoghi avevano alle spalle. Purtroppo sono anche io convinto che valga la pena solo se si abbia un progetto serio per cui ora è un bel pò di tempo che non mi dedico all’urbex anche perchè poi è sconsigliabile visitare quei luoghi da solo.