Documentare? Anche no.

On 16/10/2014 by Nicola Focci

C’è un libro, molto bello, che non mi stanco mai di rileggere:  “Il cinema secondo Hitchcock”.

Si tratta di un libro-intervista da regista a regista: François Truffaut dialoga con Alfred Hitchcock (del quale è un grande estimatore).

Il corpulento regista inglese regala alcuni preziosissimi aneddoti al lettore. Ad esempio quando racconta di “Intrigo Internazionale” e della scena in cui Cary Grant viene attaccato da un aereo in un campo deserto. Truffaut la definisce “affascinante perché gratuita”:

 

L’idea di Hitchcock nel concepire questa scena, fu geniale: ribaltare i canoni dell’agguato nei film di spionaggio.

Qual’era la situazione iconica, sino ad allora? Notte; un vicolo buio, il selciato bagnato per la pioggia appena caduta; la vittima che attende sotto la luce di un lampione; il killer che si presenta in impermeabile… ecco quindi la scena in pieno sole, in una zona arida-desertica, e il killer su un aeroplano!

Tornando al libro: di recente ho completato l’ennesima rilettura, e, a parte i tantissimi aneddoti, mi è caduto l’occhio su questa considerazione che Truffaut fa alla fine del libro:

Quando è stato inventato, il cinema è servito innanzitutto a registrare la vita: era allora un’estensione della fotografia.

E’ diventato un’arte quando ha smesso di essere documentario.

Si è capito che non si trattava di riprodurre la vita, ma di renderla più intensa.

Truffaut limita  la sua riflessione al cinema, il che è ovvio, trattandosi della sua professione; ma ritengo che per la fotografia si possa sostenere il medesimo concetto.

Quando la fotografia si spoglia della “necessità” di documentare un tempo ed un luogo ed un fatto, ecco che il soggetto diventa l’immagine interiore del fotografo. E quindi si compie l’arte.

Diventa allora determinante l’idea… come si diceva a proposito del paragone tra fotografia e arte concettuale. Idea che può pure essere lontanissima dalla realtà; ma deve essere “buona”… innescare cioè un certo stupore, degli interrogativi.

Un po’ come Cary Grant che corre nel deserto, inseguito da un aereo.

Nel mio piccolo, mi piace pensare che sia esattamente questo il tipo di percorso che ho intrapreso: più lontano dalla realtà fuori, e più vicino a quella dentro (di me). La realtà come pretesto, come metafora, come base di partenza per un’idea.

Nella vita non esiste nulla di impermanente e quindi non posso dire di aver trovato una strada definitiva… ma per adesso, però, sicuramente sì! 😉

(da “L’incompletezza”)

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