Il giusto contrasto nella stampa analogica

On 21/09/2015 by Nicola Focci

 

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Se avessi scritto “La ricerca del Graal”, sarebbe stato quasi lo stesso… perché è inutile nasconderlo: quando il neofita ha appreso i rudimenti della stampa in camera oscura, l’ottenimento del giusto contrasto diventa il principale scoglio da superare.

Come si fa? Qual’è la procedura corretta?

Mi rivolgo proprio ai maggiormente neofiti, cercando di esporre questo abnorme argomento in un modo che aiuti a far frullare le celluline grigie (come diceva Hercule Poirot), perché la cosa non si può risolvere con quattro consigli al volo.

Siccome però mi piace essere originale (!), parto dal fondo:

La valigetta di Tarantino

In definitiva, il contrasto giusto nella stampa analogica somiglia alla valigetta nera di “Pulp Fiction”.

Esatto: proprio quella che John Travolta e Samuel L. Jackson recuperano all’inizio del film, ma di cui non si vede mai il contenuto.

Image

Interrogato in merito a ciò che tale valigetta contenesse, Quentin Tarantino ha semplicemente risposto:

Contiene quello che lo spettatore vuole che contenga.

E adesso facciamo un passo indietro…

Cos’è il contrasto

Bisogna per forza partire dalla definizione. Volendo darne una sintetica (e riferita alla stampa):

Il contrasto è la differenza ottica tra le parti più scure della scena (“ombre” in analogicese) e le parti più luminose della scena (“alte luci” sempre in analogicese).

Se ho alte luci molto luminose e ombre molto scure, ho un’elevata differenza tra le une e le altre, e quindi ho un alto contrasto. Va da sé che in questo caso la mia fotografia sarà “netta”, cioè con pochi grigi (come piace tanto sulle bacheche on-line in voga oggi).

Se invece le alte luci sono molto scure e le ombre molto chiare, ho una bassa differenza tra le une e le altre, quindi ho un basso contrasto. Va da sé che in questo caso la mia fotografia sarà “piatta”, con molti grigi.

Ripetendo:

  • Alte luci brillanti e ombre scure = pochi grigi = alto contrasto
  • Alte luci scure e ombre chiare = molti grigi = basso contrasto

In camera oscura ed in fase di stampa, è possibile modificare questo tipo di situazione.

In particolare(*):

  • Se il mio negativo è eccessivamente contrastato (come nel caso di un controluce) posso diminuire tale contrasto in stampa e recuperare quindi quelle ombre troppo scure (o quelle alte luci eccessivamente “bruciate”).
  • Se il mio negativo è poco contrastato (come nel caso di una giornata nebbiosa), posso aumentare questo contrasto in stampa e recuperare quindi quelle ombre troppo chiare (o quelle alte luci troppo impastate e grigiastre).

Come si varia il contrasto in stampa

La carta da stampa è caratterizzata da un valore numerico proporzionale al “grado di contrasto” esprimibile dalla carta stessa, e che per convenzione varia da 0 (contrasto minimo) a 5 (contrasto massimo)(*).

Tale grado di contrasto può essere fisso (cioè comune al pacco di carta nel suo complesso, e in tal caso riportato sul pacco stesso) o variabile.

In quest’ultima tipologia di carta, detta “multigrade”, il contrasto sul singolo foglio in stampa si stabilisce inserendo un apposito filtro colorato nella testa dell’ingranditore. In pratica, un unico set di filtri mi permette di ottenere tutti i gradi di contrasto senza dover acquistare molti pacchi di carta diversi.

Ciò premesso, e come sempre succede nel “campo analogico”, ciascuno è perfettamente libero di trovare la propria prassi operativa. Ai neofiti, però, di solito si suggerisce di separare il problema in due metà: e cioè occuparsi prima delle alte luci, e poi delle ombre.

Nello specifico:

  • Dapprima si trova il giusto tempo di esposizione, che sarebbe quello idoneo a rendere in modo ottimale le alte luci (non devono essere bruciate, ma devono conservare l’opportuno dettaglio).
  • Dopo di che, ci si occupa del contrasto (=si varia il grado) ossia delle quantità di grigi che separano queste alte luci dalle parti più scure, in modo da avere ombre corrette.

Separando il problema, si evitano di variare i due parametri contemporaneamente, che sarebbe un errore perché si perderebbe la percezione di quale dei due ha causato l’effetto finale sulla nostra stampa.

E quindi?

Qualcuno mi dirà, sì vabbé, è tutto molto bello!, ma non hai risposto alla domanda cruciale!

Che è sempre quella:

Ma qual’è questo “giusto” contrasto?

Come faccio a sapere di aver centrato l’obiettivo?

Se anche ho imparato come impostare il grado di contrasto della carta, cosa me ne faccio?

Qui sta la principale complicazione della stampa analogica, che – fatemi dire – non è operativa ma concettuale.

Premesso che il contrasto “giusto” dipende anche dal negativo (come spiegato in precedenza), potremmo dire che:

Il contrasto “giusto” della stampa finale non è un concetto assoluto, ma dipende  dall’interpretazione che vogliamo dare alla fotografia.

E’ la stessa cosa di quanto scegliamo i vestiti la mattina: non ci affidiamo a un manuale o ad una procedura rigorosa, ma mettiamo quello che “va bene” a noi (sia esso un fatto cromatico, di funzionalità, di impegni della giornata, di stagione, e così via).

Quindi la domanda giusta non è tanto “qual’è il grado di contrasto corretto”, ma piuttosto “qual’è il grado di contrasto funzionale” (a ciò che voglio esprimere).

Ciò prescinde da qualunque altro tipo di argomentazione esterna a noi, quale ad esempio:

  • la moda,
  • la tendenza imperante su Flickr,
  • le foto di Michael Kenna o chi per lui,
  • gli appunti tecnici di Mario Giacomelli o chi per lui,
  • il numero di “favoriti” su 500px,
  • l’ultima mostra di Sebastião Salgado,
  • …e quant’altro.

La risposta deve essere contenuta nello spazio tra le nostre orecchie, e solo lì.

Un esempio

Prendete questa immagine che ho scattato negli USA un paio di anni fa (scansione da stampa):

Golden Gate Park - Japanese Tea Garden

Golden Gate Park – Japanese Tea Garden

Mentre scrivo, onestamente non ricordo come fosse il negativo; ma sono ragionevolmente sicuro che, volendo, i dettagli dei tronchi si sarebbero potuti registrare, e riportare sulla carta sensibile.

A me però interessava enfatizzare il disegno creato dai rami sullo sfondo luminoso, che sembra quasi un insieme di vasi sanguigni. E’ ciò che mi ha colpito al momento in cui ho fatto la foto, trattandosi di un posto (parco a tema zen giapponese) molto tranquillo ma anche molto emozionante, lontano da caotico traffico statunitense, dove si può riflettere su se stessi e (perché no?) scoprire qualche metafora di se stessi anche nella natura.

In fase di stampa, quindi, io ho alzato il contrasto della carta in modo da “togliere gradini di grigio” e creare qualcosa che somiglia più ad un disegno a china che ad una fotografia.

Via col vento

Si tratta, naturalmente, di una scelta soggettiva e sempre discutibile. Qualcuno potrebbe affermare che, in questo modo, la fotografia cessa quasi di essere tale: basta un pennino e dell’inchiostro! Qualcun altro potrebbe criticarmi perché “Hai chiuso troppo le ombre!, lo sanno tutti che ciò va sempre evitato!”.

Ebbene, francamente me ne infischio! (come disse Rhett Butler).

rhettbutler2

E vi invito a sostenere altrettanto!

Che piacciano o meno, dobbiamo imparare a difendere le nostre scelte artistiche… se sono davvero consapevoli. 

Sono “nostre” scelte, e – in quanto tali – non oggettivamente discutibili.

(*)Disclaimer

Ho condensato in poche righe e brutalmente, una prassi non banale e che richiederebbe un’esposizione più articolata a monte ed a valle del processo. Ma non era lo scopo di questo articolo.

Se volete approfondire, posso consigliarvi il mio “Manuale del bianco e nero analogico”!

2 Responses to “Il giusto contrasto nella stampa analogica”

  • I primi tempi che stampavo in camera oscura facevo poi vedere le mie stampe ad un amico più grande di me ed esperto fotografo per raccogliere il suo parere. Un giorno fotografai una impalcatura con su gli operai dal basso. Non era un controluce netto ma lo stampai esattamente come i tuoi alberi e lo mostrai al mio amico. Lui guardò la stampa e mi disse che era una buona foto, poi guardò il negativo e mi disse quasi irato: “ah ma così bari, l’hai stampata come fosse un controluce ma non lo era. Allora non è mi sembra molto interessante”. Lì per lì ci rimasi male ed onestamente non capivo dove fosse il problema e per lungo tempo cercai di riprodurre le stampe con la massima gamma tonale ottenibile con il risultato di avere stampe scialbe e vuote anche nella più interessante delle fotografie. Solo molto tempo dopo ho capito che in fondo le regole è bene conoscerle ma non è detto che siano sempre da seguire come un oracolo.

    • Sono perfettamente d’accordo!
      Quello che il tuo amico chiamava “barare”, è in realtà ciò che per me è l’essenza stessa del fotografare, e cioè dare un’interpretazione del reale.
      Altrimenti si ricade nell’antico concetto che la fotografia replica esattamente il reale: roba ormai sbugiardata da un secolo o quasi! 😉