Kodak e la rana nella pentola
Riporto (traduco) parte di un interessante articolo apparso su The Economist.
Che Kodak non se la passi finanziariamente bene per nulla, è cosa ormai risaputa. [Aggiornamento del 19/12/2012: la bancarotta è un fatto conclamato].
Eppure stiamo parlando del più grande produttore di pellicole del pianeta: un colosso che negli anni ’70 deteneva il 90% del mercato, e che ancora a metà degli anni ’90 aveva un fatturato di 16 miliardi di dollari annui.
L’ironia della sorte è grande, dal momento che proprio Kodak ha ideato la causa della sua disfatta, cioè il dispositivo che questo mercato ha finito per fagocitare: il sensore digitale. Fu proprio un ingegnere della casa statunitense, infatti, ad inventare nel 1976 quel fatidico congegno: un oggetto pesante 4 Kg e dalla risoluzione di 1.3 megapixel.
Ma Kodak sedeva sugli allori di un monopolismo che pareva inattaccabile… e quel dispositivo rimase per anni chiuso in un cassetto.
Solo che la filosofia delle piccole macchinette usa-e-getta non avrebbe mai potuto funzionare con la tecnologia digitale. Sicura del suo mercato e forse troppo perfezionista, Kodak non si è curata della valanga di fotocamere digitali che le stava arrivando addosso… E la proliferazione di smartphones degli ultimi anni ha fatto il resto, relegando la pellicola ad un oggetto di nicchia (lo dico con affetto in quanto utilizzatore).
E sì che Kodak aveva avuto i suoi bravi profeti in patria. Come Larry Mateson, un dirigente che nel 1976 scrisse un dettagliato memorandum in cui prevedeva il completo passaggio al supporto digitale nell’arco di 35 anni. Sbagliò di poco… e non fu ascoltato.
Le azioni della Kodak, quotate a 96 dollari nel 1997, sono state scambiate a 70 centesimi all’inizio di quest’anno. Nel corso di dieci e più anni, quindi, Kodak si è comportata come la rana nella pentola sul fuoco: non si è accorta che l’acqua stava per bollire.
Si poteva evitare questa fine ingloriosa? Certamente sì, e Fujifilm è qui a dimostrarlo.
La casa giapponese, infatti, è sempre stata un po’ l’equivalente di Kodak nel mercato asiatico (e non solo), e si è trovata ad affrontare la medesima crisi del supporto analogico.
Con la differenza, però, che non s’è fatta trovare impreparata. A cominciare dalla diversificazione: ha sfruttato il proprio know-how nella preparazione di anti ossidanti (necessari per la fabbricazione di pellicole) per avviare la produzione di cosmetici anti invecchiamento, che verranno lanciati proprio quest’anno sul mercato europeo.
Eppoi, Fujifilm non s’è arroccata di fronte allo strapotere della tecnologia digitale. Al contrario, si è rimboccata le mani: <<se non puoi batterli, unisciti a loro>>. E il risultato, oggi giorno, è sotto gli occhi di tutti: la fenomenale linea di fotocamere “X”, una brutta gatta da pelare per le aziende concorrenti… a cominciare dai modelli presentati nel 2011 (X100 e X10) che già si configurano come autentici best seller, per non parlare della mirrorless X-Pro 1 presentata da poco al CES di Las Vegas.
Fujifilm, oggi, è un’azienda fortemente in attivo e con grandi prospettive. Le sue mitiche pellicole (come le storiche Provia, Velvia, Astia) hanno nuova vita nel supporto digitale, grazie a geniali simulazioni applicate dalle fotocamere giapponesi: intelligente operazione di marketing, che funziona altrettanto bene sul campo.
La selezione naturale, insomma, ha colpito di nuovo: chi sa adattarsi, sopravvive.
E per una volta sono stati i giapponesi a non fossilizzarsi nella tradizione, ed a saper cogliere il mutamento.