Etica e fotografia
Una coppia si fa ritrarre da un amica (avendo la famosa ruota London Eye sullo sfondo), e intanto passa una ragazza disabile. Il fotografo ha ovviamente colto l’attimo, aspettando che la carrozzina entrasse nell’inquadratura.
La fotografia è mia, e, mostrandola la prima volta ad un amico, mi è stato sollevato un problema di etica, di opportunità, di eccessiva “crudezza” dell’immagine. Si tratta di un caro amico: il suo era un consiglio, non una tirata di orecchie… Però apre una questione tutt’altro che banale, sulla quale – proprio in seguito a questo episodio – ho riflettuto parecchio. Vediamo di approfondirla.
Il rapporto tra etica (intesa come ricerca di ciò che è buono/giusto o cattivo/sbagliato) e fotografia è alquanto travagliato, perché alla base c’è un problema di tipo culturale.
Per (provare a) spiegarlo, parto da una splendida frase di un grande maestro:
La fotografia mostra, non dimostra.
(Ferdinando Scianna)
Cosa vuol dire? Che si è (culturalmente) portati a pensare che la fotografia “dimostri”, cioè sia una spiegazione della realtà. E’ un retaggio della sua natura tecnica: sin dagli inizi, infatti, la fotografia è stata vista come un atto scientifico e non creativo. Non è un caso che il primo fotolibro in assoluto (realizzato dall’inventore del moderno processo fotografico, William Henry Fox Talbot) si chiamasse “The pencil of nature” , “La matita della natura”: diversamente da un quadro che è un’opera di fantasia, la fotografia “dimostrava” la realtà, bastava a se stessa, spiegava ogni cosa… ed in essa c’era tutto: niente di più, niente di meno.
Si tratta di un’interpretazione “culturale” che non solo era sbagliata anche ai primordi (il fotomontaggio è vecchio quanto la fotografia stessa!) ma ha poi storicamente fallito.
Di esempi ce ne sono ennemila: dai gerarchi cancellati nelle foto per ordine di Stalin o altri dittatori, al famoso bacio spontaneo di Dosineau che era tutt’altro che spontaneo. Ma in generale l’intera fotografia concettuale prende le distanze dalla realtà, nel senso che la interpreta: è il caso delle (pur molto realistiche) foto di Mario Giacomelli all’ospizio, che rappresentano non tanto ciò che stava al dilà della macchina fotografica, quanto ciò che stava al di qua: le ossessioni dell’autore.
La fotografia, quindi, “dimostra” qualcosa solamente quando viene letta in un determinato modo da chi la “previsualizza” prima di scattarla, o da chi la osserva. E ciò, sulla base di convinzioni e visioni e background culturali avulsi dalla fotografia stessa, che quindi di per sé non è eticamente né giusta né sbagliata.
Per fare un processo alle intenzioni del fotografo, quindi, non basta considerare ciò che la sua fotografia mostra: bisogna anche valutarle, queste sue intenzioni.
Torniamo alla mia foto della coppia e della disabile.
Guardandola, si potrebbe pensare che il fotografo (io) sia stato eticamente discutibile. “Povera ragazza sulla carrozzina, mentre invece la coppia è lì felice… metterla in piazza, così… che sciacallo!, che bisogno c’è di farle pesare ulteriormente la sua condizione?”.
Si tratta però di una lettura soggettiva, non di ciò che la fotografia “dimostra”. Essa, in sé, non “dice” nulla di tutto questo. Non sta “dicendo” che la mia intenzione era quella di denigrare qualcuno.
Al contrario, per me il focus era maggiormente sulla coppia che sorride: dare un significato (contestualizzare) al loro atteggiamento, non tanto come situazione specifica del momento, quanto come approccio generale.
Ciò che intendo dire, è che potrei essere io stesso un disabile (non necessariamente agli arti: esistono tanti tipi di disabilità, anche non evidenti…). E questa fotografia potrebbe raffigurare il mio sentire interiore, il mio vivere questa condizione, il voler esprimere il concetto che la disabilità non la capisci fino in fondo se non la vivi sulla tua pelle – perché quando le cose “vanno bene”, si fatica a uscire dalla propria zona di conforto.
Qui è dove la fotografia si fa potente. Un’immagine vale spesso più di tante esperienze reali… anche simulate. Ricordo un test fatto da alcuni dirigenti giapponesi sui loro treni: per sperimentare i disagi degli utenti più anziani, indossarono dei pesi agli arti e speciali occhiali che offuscavano la visione, e si mischiarono ai passeggeri. Però avevano anche una targhetta di riconoscimento con su scritto nome e grado; e il risultato fu che gli altri passeggeri, leggendola, si spostavano per far loro spazio… cosa che agli anziani, ovviamente, non viene garantita! Non si trattava quindi di una vera esperienza.
Ma torniamo alla mia fotografia londinese, facendoci un’altra domanda: e se questa scena fosse rappresentata su un disegno o su un quadro? Causerebbe la medesima “sensazione”? Porrebbe la medesima questione “etica”? Il medesimo processo alle intenzioni?
Probabilmente no… a dimostrazione che il problema è culturale.
I problemi culturali, a differenza di quelli tecnici, sono difficili da estirpare. Questo vale in tutti gli ambiti: si pensi alla sicurezza sul lavoro! Possono volerci generazioni. E purtroppo, la fotografia di questi problemi ne ha un sacco… anche recenti. Pensiamo alla privacy. Oggi è impossibile fare foto di strada senza essere apostrofati: “Lei perché fotografa?, chi le da’ il permesso?, cosa vuole?, ecc ecc…”. Si da’ per scontato che dietro ci sia un dolo: ti fotografo per “sputtanarti”, per fare un uso scorretto della tua immagine… perché siamo diventati tutti diffidenti, e il prossimo è cattivo a prescindere. Una volta non era così: la prova è proprio negli ennemila fotografi famosi e bravissimi che hanno fatto la storia della street photography.
Qual’è, dunque, la mia personale conclusione su questo rapporto tra etica e fotografia?
Che nessuno ha la pretesa di risolvere in un baleno questi problemi culturali. Bisogna però averne coscienza. E soprattutto, secondo me, avere una mente aperta:
A un giovane fotografo direi di fotografare tutto, di avere la coscienza e il coraggio di fotografare la sua vita. È una cosa violenta perché lo si accuserà di occuparsi di se stesso ma io credo che, quando si parla di sé, si parli anche degli altri. Bisogna che tutto, però, sia basato su una necessità ma, evidentemente, fotografando gli altri, ci si fotografa e le persone che pretendono di non parlare mai di sé stesse, in verità ne parlano.
(Raymond Depardon)