Il libro che ispirò Cartier-Bresson
Per il maestro della street, “Lo Zen e il tiro con l’arco” fu un libro di fondamentale importanza, ed ebbe un ruolo decisivo nella sua concezione di fotografia (o perlomeno di nel suo modo di descriverla).
Ho voluto capire perché; ed eccomi quindi qui a raccontare del (e riflettere sul) suddetto libro, che peraltro è piuttosto breve: un centinaio di pagine.
Scritto nel 1948, narra del periodo che l’autore – il docente tedesco Eugen Herrigel – ha passato in Giappone per insegnare storia della filosofia all’università Tohoku. Siccome era desideroso di apprendere qualcosa di più sullo Zen, Herrigel si fece introdurre presso un Maestro di tiro con l’arco.
In Giappone, infatti, il tiro con l’arco non è una semplice disciplina sportiva, ma bensì una vera e propria arte marziale; quindi Herrigel cominciò ad applicarvisi totalmente, lezione dopo lezione.
Trama: un percorso difficile
Ma l’impresa si rivela più ardua di quello che sembrava all’inizio. Il Discepolo fatica anche solo a tendere completamente l’arco: gli richiede uno sforzo e una concentrazione indicibili.
Gli viene insegnato come, attraverso il rilassamento fisico e la respirazione, vi si poteva riuscire completamente e senza fatica. Soprattutto la respirazione: concentrandosi su di essa, gli stimoli esterni vengono ad essere smorzati. Il Discepolo è sorpreso:
Questo era dunque il segreto: non un accorgimento tecnico che invano avevo cercato di scoprire, ma una respirazione che liberava e apriva nuove possibilità.
Poi il Discepolo si misura con lo scoccare la freccia, e anche qui incontra molte difficoltà, perché non riesce a compiere l’atto in modo fluido.
Il Maestro gli spiega che va fatto senza intenzione, senza pensare:
Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà dall’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che fa non avvenga. (…) Una comune foglia di bambù può insegnarle di che si tratta. Sotto il peso della neve si piega in giù, sempre più in giù. E a un tratto il carico di neve scivola via senza che la foglia si sia mossa.
Tensione senza intenzione: questa è la giusta ricetta.
Successivamente, il Discepolo si concentra sul bersaglio… e di nuovo, altre difficoltà: non riesce a colpirlo, e se ne duole continuamente. Anche qui viene ammonito dal maestro:
Lei si preoccupa inutilmente. Si tolga dalla mente il pensiero di colpire nel segno! Può diventare un maestro d’arco anche se non tutti i colpi fanno centro.
Con una certa indolenza (similmente al saggio Miyagi di Karate Kid!), il Maestro gli spiega che il bersaglio va visto in modo diverso rispetto a quanto succede in occidente: non più “fine”, ma “mezzo”; non più obiettivo concreto, ma spirituale.
Diventa cioè parte di un vero e proprio cerimoniale, in cui bersaglio e arciere si fondono (il concetto di Satori del Buddismo Zen) per conseguire una mèta che con la sola tecnica non si può raggiungere: il pieno dominio di sé.
L’insegnamento del Maestro, quindi, è che il viaggio conta più della destinazione.
Da noi si consiglia che chi ha da percorrere cento miglia consideri le novanta come metà. (…) Voi dovete comportarvi come se la mèta fosse infinitamente lontana.
(A pensarci bene, non è una cosa tanto strana: quante volte, una volta giunti all’obiettivo, ne siamo rimasti delusi, e maggiormente gratificati dal percorso intrapreso per ottenerlo?)
Quando il discepolo riesce finalmente a cogliere il bersaglio e se ne rallegra, arriva l’ultimo ammonimento del Maestro:
Impari anche a non rallegrarsi dei colpi buoni. Lei deve liberarsi dell’altalena del piacere e dispiacere. Deve imparare a starne al disopra con distacco e indifferenza e perciò a rallegrarsi come se un altro e non lei avesse tirato bene. Anche in questo deve esercitarsi instancabilmente. Non può nemmeno immaginarsi quanto sia importante.
Sì, ma… la fotografia?
Il punto di contatto tra tiro con l’arco e fotografia sta nel fatto che entrambe queste “arti” prevedono un’interazione col mondo.
Un mondo che – come spiega Cartier-Bresson – si organizza in un “istante decisivo”: dal caos, ad un ordine significativo ed estetico.
Questo “istante decisivo” viene colto dal fotografo grazie ad una totale permeanza col soggetto, mediante un gesto così spontaneo da far sì che non è il fotografo a scattare la fotografia, ma è la fotografia che “si è scattata”.
Per ottenere ciò, è necessario “svuotare” la mente da qualunque preoccupazione e pensiero, da ogni ansia da prestazione, da ogni convinzione dogmatica, dalla paura di fallire (che ci fa sbirciare il display delle nostre macchie digitali subito dopo ogni scatto!).
Grazie alla pratica (<<Le tue prime 10mila fotografie sono le peggiori>>, diceva Cartier-Bresson), i gesti tecnici diventano istintivi. L’arte diventa senz’arte… e si arriva al paradosso descritto da Daisetsu Suzuki nella prefazione al libro:
L’uomo è un essere pesante, ma le sue grandi opere vengono compiute quando non calcola e non pensa. Dobbiamo ridiventare “come bambini” attraverso lunghi anni di esercizio nell’arte di dimenticare se stessi.
Nel mio piccolo…
Da quando ho abbracciato la fotografia analogica e i tempi più lenti che essa impone, anche io – nel mio piccolo – sperimento qualcosa di simile quando scatto.
Quando sono di fronte al soggetto, sono talmente concentrato che spesso non mi accorgo di cosa mi succede intorno. E’ una sorta di isolamento totale.
E ragiono in modo del tutto automatico, tanto che quasi sempre – anche a distanza di pochi minuti – non ricordo che impostazioni di tempo o diaframma ho usato.
Fotografare è un atto che mi riconcilia con me stesso. Mi da’ un piacere che, frequentemente, è maggiore del constatare quanto quella foto sia davvero riuscita o possa piacere.
Più importante di tutte le opere esterne, anche le più affascinanti, è l’opera interiore che [l’allievo] deve attuare se vuole portare a compimento la sua vocazione d’artista.
Tornando al libro
“Lo Zen e il tiro con l’arco” si legge in modo abbastanza fluido. Herrigel è piuttosto abile nel descrivere le sue sensazioni, rendendone così il lettore alquanto partecipe: ci si immedesima facilmente nelle sue difficoltà con la tensione dell’arco o lo scoccare della freccia.
Da qualche parte ho letto che il libro è un po’ noioso sino alla “illuminazione finale”, ma io non sono d’accordo. E’ sufficiente immedesimarsi (come scrivevo sopra) per apprezzarlo sin dalle prime pagine, senza farsi eccessive illusioni su una ricetta magica nelle ultime pagine. L’insegnamento, del resto, è presente sin dall’inizio… grazie ai numerosi esempi del maestro, spesso a sfondo naturalistico (come quello della foglia di bambù citato più sopra).
Un testo davvero consigliato, insomma!