Dietro le quinte: ‘ Madre migrante’ (Dorothea Lange)
Uno sguardo carico di determinazione, di preoccupazione, o entrambe le cose?
“Madre migrante” (perché la didascalia qui è necessaria, spiega moltissimo) è una anzi “LA” icona della Grande Depressione americana. Nonché uno splendido esempio di quanto può essere semplice e al tempo stesso efficace una fotografia:
La donna e i suoi bambini compongono un quadro emotivamente fortissimo, si potrebbe quasi dire “Mariano”.
Questa fotografia è di fatto uno slogan: “Bisogna fare qualcosa”.
Risale alla primavera del 1936, e fu effettuata presso un campo di lavoratori emigranti a Nipomo in California. L’autrice, Dorothea Lange, era impegnata (insieme ad altri fotografi) in un progetto commissionato dalla Farm Security Administration, teso a documentare gli effetti della Grande Depressione su braccianti e gli emigranti, per sensibilizzare il paese.
Nelle sue peregrinazioni, incontrò questo gruppo familiare composto da una madre e svariati bambini. La loro situazione, raccontata dalla Lange in una intervista del 1960 su Popular Photography, era disperata: avevano venduto le ruote della loro automobile per potersi sfamare, e giacevano lì, in attesa di chissà cosa.
La madre aveva 32 anni: <<Non ricordo come le spiegai la mia presenza o la mia macchina fotografica (una Graflex a lastre 4×5″, n.d.A.), ma ricordo che non mi fece domande>>. Lange scattò sei fotografie, tutte rimaste negli archivi (la prima essendo quella qui sopra); ma mentre le prime cinque sembrano più fredde e quasi costruite, l’ultima fu molto più magnetica e potente, e sarebbe entrata nel mito .
Pubblicata il giorno dopo sul San Francisco News, “Madre migrante” fece una tale sensazione che alcuni lettori inviarono subito al campo delle provviste… che però arrivarono quando la famiglia si era già spostata.
La Lange, per sua stessa ammissione, non era intressata a sapere la storia personale della donna, e nemmeno il nome. Che infatti rimase sconosciuto sino al 1978, quando il Los Angeles Times rintracciò e intervistò a Modesto (California) la “Madre migrante” .
Se Florence Thompson (questo era il suo nome) nella foto di quarant’anni prima si era mostrata fiera e preoccupata, nell’intervista fu invece astiosa e poco tenera nei confronti della Lange: <<Vorrei non mi avesse mai fotografata. Non vi ho tirato fuori neanche un penny. Non mi ha chiesto come mi chiamavo. Disse che non avrebbe venduto le foto. Che me ne avrebbe mandato una copia. Non l’ha mai fatto>>. Quando il giornalista le chiese se non si sentisse orgogliosa per essere diventata un’icona, la donna rispose: <<Bene; ma a me cosa è venuto in tasca?>>.
I figli, successivamente, negarono anche l’episodio della vendita delle gomme.
Dorothea Lange, morta nel 1965, non avrebbe mai potuto replicare.
Se è vero che nemmeno la Lange ebbe un singolo penny per quella foto (l’incarico era pubblico), ebbe comunque un debito di riconoscenza verso Florence Thompson, perché la sua carriera decollò. Avrebbe potuto interessarsi maggiormente alla donna, quanto meno chiedendole il nome? Si potrebbe, qui, aprire il dibattito se un fotografo debba in qualche modo compatire (nel senso latino del termine, “patire con”) il soggetto, ed aprire un canale di empatia con esso; oppure debba mantenersi del tutto imparziale come fece la Lange, per fare del soggetto non “la” donna ma “una” icona di donna.
Fonti:
John Ingledew, “Professione: fotografo”‘, ed. Logos
Graham Clarke, “La fotografia – una storia culturale e visuale”, Piccola Biblioteca Einaudi
http://www.loc.gov/rr/print/list/128_migm.html
http://en.wikipedia.org/wiki/Florence_Owens_Thompson
http://www.alistairscott.com/lange/