I diari messicani di Edward Weston

On 29/08/2016 by Nicola Focci

Lettura di queste vacanze appena trascorse: “Ritratti al vivo” di Edward Weston, un interessante volume che riporta i diari del grande fotografo americano nel suo “periodo messicano” (dal 1923 al 1926).

Nel 1923, Weston vive a Los Angeles; ha 37 anni, è marito e padre di quattro figli; ed è un fotografo affermato: sia commercialmente (si occupa di ritratti ed ha uno studio molto ben avviato), sia artisticamente (aveva vinto alcuni premi internazionali).

Cosa lo spinge a piantare baracca e burattini, e trasferirsi nel ribollente Messico dove le rivoluzioni vanno di pari passo col fervore artistico? L’incontro fatale con una donna!, ovviamente. Si tratta di Tina Modotti, una bellissima attrice italiana del muto di dieci anni più giovane, che finisce per diventare la sua amante e sconvolgere la sua vita.

Ma va anche detto che, in quel periodo, Weston stava sperimentando un cambiamento drastico nel suo modo di fare fotografia: dagli scatti soft focus di stampo pittorialista che gli avevano fatto vincere i premi, ad un approccio improntato al realismo.

Credo che ci si debba avvicinare alla fotografia per altre vie, che si dovrebbe usare la macchina fotografica per registrare la vita, per rendere la vera sostanza e quintessenza della cosa stessa, sia essa ferro lucente o carne palpitante.

Cambiare aria per agevolare il cambio di poetica, insomma: anche questa fu la molla che lo spinse verso sud. L’ambiente assai diverso e stimolante del Messico sarà a tal fine determinante: in quegli anni, Weston farà fotografie tra le più famose e celebrate; e la sua poetica realista prenderà una direzione consolidata e matura.

Tre anni di passione

E così, nell’Agosto del 1923, Weston si imbarca per il Messico insieme a Tina ed al figlio tredicenne Chandler.

In Messico visse tre anni – con la parentesi di un ritorno in terra americana e un “cambio di figli”, Brett per Chandler – durante i quali non si risparmiò in avventure artistiche, sentimentali, ed umane. Nel 1926 lasciò definitivamente Tina e il Messico, tornando negli USA.

I diari di questo periodo sono interessantissimi per un fotografo.

Infatti, al di là delle molte righe dedicate al Messico ed alle sue tradizioni (ad esempio la corrida, che Weston apprezza più come metafora che come spettacolo in sé), egli si occupa anche di fotografia, svelando sia le sue aspirazioni sia le problematiche che incontra. Per chi come me ha visto gli scatti di Weston in mostra, è come avere una sorta di “spiegazione” degli stessi.

A bocca aperta

Ad esempio, il ritratto di Lupe Marìn, che all’epoca era la moglie di Diego Rivera.

Guadalupe-1923-8PO

Guadalupe Marìn de Rivera, 1924

(Fonte: edward-weston.com)

A suo tempo abbiamo visto come questo scatto rompa il “dogma” della luce di mezzogiorno che non andrebbe bene per i ritratti. Weston sapeva perfettamente quello che faceva (era un ritrattista per lavoro!) e non aveva il minimo dubbio su quanto intendeva esprimere.

Sto terminando il ritratto di Lupe. E’ un volto eroico, il migliore che ho fatto in Messico; con la Graflex, alla luce diretta del sole, l’ho ripresa a bocca aperta, mentre parlava; e quale azione può essere più rappresentativa di Lupe? Io la ricorderò sempre così, mentre canta o parla.

Oggi, forse, questo concetto può apparire ovvio. Ma allora, nel 1924, non credo fosse così scontato usare il ritratto per rendere la persona ciò che realmente era, anziché ciò che il cliente voleva fosse. Perlomeno, era tutto il contrario di quanto Weston doveva fare per guadagnarsi da vivere, dato che anche in Messico esercitava la professione di “ritrattista classico” che gli era propria a Los Angeles.

Queste fotografie rappresentavano perciò l’espressione della sua nuova poetica artistica, e ciò che a lui realmente interessava.

Tina che recita, 1924

Tina che recita, 1924

(Fonte: edward-weston.com)

Millimetri di legno

Particolarmente interessante è anche la storia di “Excusado, 1925”.

Toilet

(Fonte: pinterest.com)

La foto gli piace tantissimo, ma…

…ho solo un dispiacere, un errore dovuto alla fretta, alla mancanza di attenzione e alla stupidità: mi prenderei volentieri a pugni. Nella parte superiore della fotografia si vede il coperchio di legno, solo un centimetro, ma è un particolare abbastanza fastidioso. (…) Un gesto semplice come togliere di mezzo il coperchio, non mi è neanche venuto in mente. Ho solo una scusa, di aver lavorato troppo in fretta e sotto stress, con la preoccupazione costante che qualcuno avesse bisogno urgente di usare il water per scopi ben diversi dai miei.

Weston decide poi di non rifare la fotografia (“Eliminare il coperchio del WC, lo renderebbe meno WC: fotografia è realismo!, perché inventarsi delle scuse?”) ma io sinceramente non avevo nemmeno fatto caso a quel particolare! E del resto non lo notarono nemmeno coloro ai quali l’autore mostrò subito la fotografia, come Diego Rivera, che ne fu subito entusiasta.

Mi domando quante volte noi stessi ci arrovelliamo intorno a dettagli del tutto ininfluenti delle nostre fotografie… ossia dettagli scarsamente significativi al fine di ciò che vogliamo dire, e che “arriverebbe” comunque. Come diceva Mario Giacomelli: infondo, la fotografia è una cosa semplice… se hai qualcosa da dire.

Grandi delusioni

Il diario, comunque, è interessante proprio perché mostra come i grandi maestri non siano supereroi, ma normali esseri umani tormentati da dubbi come tutti noi.

Dubbi, ed anche da problemi tecnici. Leggete qua:

Giornata infernale, ieri. Chi lavora in fotografia deve aspettarsi grandi delusioni.

Dopo aver rischiato l’osso del collo per portare la macchina fotografica 8×10 sull’azotea – la terrazza sul tetto – sopra la stanza di Tina, e dopo aver affaticato la mia schiena e messo a dura prova i miei nervi per riprendere un cumulo di nubi che si muoveva velocemente, lo sviluppo ha rivelato un’orribile nebbiolina – provocato senza dubbio da una luce estranea – e pensare che era un negativo così bello, o perlomeno lo sarebbe stato! (…) Mi sento sempre confuso, sconcertato, ingannato finché non riesco a scovare il problema. Per tutta la mattina ho scrutato, indagato e cercato, e alla fine ho tamponato con il feltro la presunta fessura dovuta a un fondo deformato; ma per il mio negativo delle nuvole, bello come non ne avevo mai fatto, non c’era più niente da fare.

Il mio pensiero va agli amici Stefano e Domenico, che hanno iniziato ad usare il grande formato! Io ancora non mi sono “convertito”; ma di sicuro avrei le mie belle gatte da pelare. (Nel 1924, comunque, non c’erano grosse alternative a questo tipo di fotografia…).

“Grandi delusioni”, sì; ma Weston non molla. E forse è questa la differenza tra un artista di talento che si afferma, e uno che sprofonda nell’oblìo: il primo, non molla mai.

Weston, comunque, è sempre estremamente consapevole; e non ha molti dubbi sul fatto che creare arte sia faticoso:

Rivera ci ha detto che un gruppo di artisti messicani ha formato un sindacato, e che si considerano e si definiscono “lavoratori” e niente più. Mi piace questa scelta, il loro manifesto. Un vero artista non è nient’altro che un lavoratore, e fa anche un lavoro dannatamente duro.

La dura lotta contro il pittoresco

Altri due aspetti mi hanno colpito in questi diari.

Il primo, l’ho provato anche io l’anno scorso in Giappone, quando ero alquanto distratto dall’aspetto “da cartolina” di quel bellissimo paese, al punto da trovare grosse difficoltà nel perseguire una “mia” visione dello stesso.

Mi sono quindi ritrovato in questo passaggio del libro:

Potrei descrivere qui il mio lavoro come una continua lotta per evitare le belle immagini del Messico pittoresco, e non è facile data la natura stessa del paese. Ho avuto questa premonizione prima di partire da Los Angeles, e mi arrabbiavo ogni volta con chi esordiva dicendomi: “Oh, avrai un mare di meravigliose opportunità per fare delle belle foto in Messico”.

Aiuta te stesso prima di tutto

Un altro aspetto interessante, è la riflessione che Weston fa circa il non sacrificare le proprie passioni. Forse può sembrare facile, detto da chi ha il “pelo sullo stomaco” per piantare tre figli piccoli e andarsene in Messico con l’amante! Ma:

Smettere completamente di sperare è un atto doloroso quanto quello di seppellire un caro amico (…) Non è detto che si agisca necessariamente per il meglio, né in modo più nobile, sacrificando le proprie aspirazioni per il bene degli altri. Non è sacrificando le proprie passioni che si fa la cosa migliore per i propri cari, ma soddisfacendo le proprie inclinazioni; anche se in apparenza non sembra che sia così.

Ho sempre trovato illuminante, in tal senso, le istruzioni di sicurezza sugli aerei:

“Illustrations for Czech Airlines” (kairra.cz)

Se non aiuti prima te stesso, non riuscirai ad aiutare gli altri. E’ un fatto pratico, non egoistico.

Compratelo!

Il libro ha ovviamente molti altri spunti interessanti (ad esempio sul rapporto tra il fotografo ed i suoi mezzi, il prezzo dell’amore per la fotografia, i negativi tecnicamente perfetti, la naturalezza dei lavori creativi…) però so d’essermi dilungato sin troppo!, quindi non mi resta che consigliarne l’acquisto.

6 Responses to “I diari messicani di Edward Weston”

  • Grazie Nicola per questo post. Devo dire che il grande formato ti pone problemi che non avresti mai pensato di affrontare ma come Weston cerchiamo di superarli. È sicuramente un libro che voglio leggere, ma guarda caso mi sono imbattuto proprio di recente in una biografia di Tina Modotti.
    Comunque sono certo che il grande formato ti stregherebbe almeno quanto ha stregato me, anche se alcuni imprevisti mi stanno facendo ritardare l’uso sul campo.

    • Grazie a te, Domenico, perché sul tuo blog stai spiegando molto bene come bisogna “attrezzarsi” per il Grande Formato.
      La biografia della Modotti è nella mia reading list! 🙂 Si tratta, indubbiamente, di un altro personaggio affascinante. Weston non ne parla tantissimo; ma si capisce che in molti casi il suo fascino e il suo charme gli ha aperto porte che altrimenti non avrebbe potuto aprire.
      Sul Grande Formato, son sempre lì lì, al bordo del confine… indeciso se lanciarmi oppure no. Vedremo… 🙂

  • Ottimo spunto di lettura!
    E’ sempre interessantissimo entrare nelle mente, nei pensieri dei Grandi: spesso ai nostri occhi ci sembra che tutto per loro sia facile mentre è la loro bravura e caparbietà che fa di un buon giocatore, un campione.

    • …e consideriamo anche che noi conosciamo solo le loro foto “belle”, ma nessuno ci ha mai mostrato le loro schifezze. Però ci sono!, eccome se ci sono.
      Insomma: come dici tu, è un fatto di caparbietà: di fronte alla schifezza, usare il cestino dei rifiuti (e andare avanti) anziché deprimersi. 😉

  • Grazie per questo suggerimento di lettura! Ero indeciso tra vari libri scritti da Weston e questo sembra molto interessante. L’ho trovato tra i remainder del Libraccio e l’ho preso!

    Trovo molto utile la riflessione sui dettagli… quante volte mi sono fissato su un dettaglio, perdendo di vista generale. Con la conseguenza di avere una foto “pulita” nei dettagli, ma senza forza compositiva nel suo insieme.

    Sul grande formato. Ti confermo che, per me, è bello tosto… nel senso che tutto diventa complicato. Non si esce a fotografare, ma a fare “La Foto”. Se non hai già le idee molto chiare, diventa difficile ottenere qualcosa di buono. Poi il processo di sviluppo e stampa è un po’ più complicato. Insomma, da un lato penso che tu avresti tutte le carte per usare bene il grande formato. Dall’altro ti direi anche che non c’è fretta; con il medio formato si ottengono già ottimi risultati con una frazione della complessità!

    • Sì, al momento mi trovo perfettamente allineato al tuo consiglio finale!
      Avevo anche io in mente il concetto de “la foto” (ottima spiegazione) e forse, in questo momento, non ho quel genere di esigenza. Anche se mi piacerebbe molto averla. Ma come suol dirsi: lo scopriremo solo vivendo! 😉
      Grazie, Stefano!