Il sondaggio di Ilford sull’analogico
Il 30 Gennaio scorso, Ilford ha rilasciato i risultati di un sondaggio condotto <<tra migliaia di utenti di oltre 70 paesi>>.
Il titolo era intrigante: “Qual’è la stata prima cosa che ti ha attirato nell’usare la pellicola?”. (Qui il link originale).
Il sondaggio offre in effetti diversi spunti di riflessione. Vediamoli insieme (la traduzione è mia).
Si tratta certamente di un trend interessante…
Sono peraltro convinto che pellicole e reagenti si produrrebbero comunque anche se ad usufruirne fossimo solo noi “vecchietti”; ma se c’è un zoccolo duro di utenza giovane, è tutto di guadagnato.
E’ la dimostrazione che non occorre essere laureati in Chimica per utilizzare con soddisfazione la pellicola: basta un buon libro (messaggio promozionale!).
Temo invece che, spesso, la presunta “difficoltà” funga da deterrente per i curiosi – specie se parliamo della stampa. E invece non c’è di che aver paura: per iniziare con la pellicola non è necessario seguire particolari corsi o farsi aiutare da qualcuno che sia già esperto. Può essere utile, questo sì, perché si si fanno le cose bene sin da subito e si perde molto meno tempo. Ma non è indispensabile.
E’ davvero una bella notizia!!
Credo, peraltro, che buona parte di quel 49% sia stata “costretta” dalla carenza di laboratori; ma non c’è dubbio che l’aspetto più “artistico” della fotografia ne guadagni. Soprattutto nel caso del bianco e nero, perché tutte le scelte di stampa (esposizione, contrasto, mascherature, bruciature…) sono profondamente personali, ed è un peccato lasciarle in mano altrui.
Non sono molto sorpreso da questa risposta.
Suppongo che quel 31% abbia fatto il mio stesso ragionamento: se si parla del colore analogico, forse il gioco non vale la candela. Non solo c’è una maggiore difficoltà operativa nello sviluppo e nella stampa; ma bisogna anche ammettere che, sempre se si parla del colore, il digitale si difende benissimo. Io continuo a fare foto (di viaggio) con la mia “vetusta” Fuji X10, e devo dire che i risultati sono ottimi, anche e soprattutto nelle simulazioni (es. Velvia).
Con questo non voglio certo sminuire il colore analogico, sia chiaro! Massimo rispetto per chi lo utilizza con soddisfazione… e la stessa cosa vale per il bianco e nero digitale, che non “pratico” per scelta personale (mi mancherebbero quelle “scelte manuali” di cui scrivevo prima, oltre a ritenerlo asettico e poco emozionante).
Il sondaggio Ilford termina presentando le vere e proprie risposte più gettonate alla domanda “Qual’è la stata prima cosa che ti ha attirato nell’usare la pellicola?”. E sono:
Non c’è dubbio! 😉
Questa la capisco di meno… sempre che non si parli del gusto feticistico che si prova nel manipolare oggetti meccanici e costruiti con precisione. Un fatto innegabile, come abbiamo visto parlando di Leica.
Sagge parole. “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”, e non c’è dubbio che i vantaggi del digitale rischiano di trasformarsi in un boomerang, se diventano un pretesto per spegnere il cervello.
Un po’ il discorso che facevo prima: la manualità è importante. Non solo perché gratifica l’essere umano, ma anche perché gli da’ l’impressione di “produrre” qualcosa che sia davvero “suo” (fatto con le sue mani, appunto).
E’ un’altra argomentazione che risulta ovvia per noi “pellicolari”, ma è molto meno scontata per i “digitalisti”.
Certo, dipende anche dall’ambito: nella fotografia sportiva, per esempio, credo sia decisamente meglio disporre di tante “cartucce da sparare” per poter cogliere l’attimo fuggente (che spesso dura frazioni di secondo).
Ma se parliamo di fotografie più “riflessive” o non così “frenetiche”, ecco che la limitazione è un fatto positivo, perché costringe a ragionare ed aiuta a crescere. All’inizio, provenendo dal digitale, è quasi una seccatura; ma in breve si capisce subito il vantaggio… e non se ne fa più a meno.
In definitiva
Mi sento rinfrancato da questo sondaggio, perché dimostra che il ritorno all’analogico non è trainato unicamente da mode (Diana, Lomo, ecc) o dalla nostalgia del tempo che fu, ma ha fondamenti molto più concreti. Io, nel mio piccolo, l’ho sostenuto spesso; e continuerò a sostenerlo! 😉
Certo: il focus va sempre mantenuto sulla consapevolezza – altro tasto sul quale “martello” spesso.
Il percorso analogico, cioè, va seguito non per una sorta di “credo religioso bovino”; ma bensì in quanto utile e funzionale al nostro fine, al nostro obiettivo.
Non bisogna mai smettere di ripeterlo: in fotografia, il “cosa” è sempre più importante del “come”.
Sentendo le motivazioni di chi preferisce la pellicola, mi viene in mente un curioso paragone:
ci sono persone che, pur avendo anche il fornello a gas o elettrico, preferiscono cucinare con la stufa a legna: e non si tratta solo di persone anziane, legate alle vecchie abitudini, ma anche persone abbastanza giovani possono preferire la stufa; sostengono proprio che una torta cucinata in una stufa a legna viene meglio che in un forno a gas (o elettrico); perché? Se si trattasse di un forno a legna, il fumo potrebbe dare un aroma particolare al cibo (una pizza cotta in un forno a legna ha un gusto diverso da una cotta in un forno a gas), ma in una stufa il fumo non si avvicina mai al cibo, è in un comparto separato, quindi non può essere quello. E non è nemmeno la temperatura di cottura, perché un forno moderno può ottenere esattamente le stesse temperature di una stufa. Gli stessi sostenitori della stufa non sanno dire quale sia, di preciso, la differenza, ma sostengono comunque che ce ne sia.
Secondo me, la vera caratteristica della cottura su una stufa è semplicemente la sua imprevedibilità: in un forno moderno, tu imposti la temperatura sul termostato, e avrai quella temperatura per tutto il tempo, con uno scarto di pochi gradi; su una stufa, ogni ciocco di legna brucia in modo diverso, in alcuni momenti il fuoco divampa, in altri rischia di spegnersi… con il risultato che non otterrai mai due volte lo stesso risultato, ogni piatto è una esperienza nuova, leggermente diversa, anche se hai usato la stessa ricetta che usavi da anni.
Forse il motivo per preferire la pellicola è qualcosa di simile: ogni scatto è un’opera unica, perché ogni risma di carta ha caratteristiche leggermente diverse, ed ogni bagno di sviluppo (preparato in modo artigianale, e quindi non molto rigoroso) agisce in modo diverso; con il digitale, è molto facile ripetere uno scatto già fatto, e stampare due copie della foto assolutamente uguali (tutto il concetto di informazione digitale, del resto, nasce da tale idea: poter fare delle copie senza perdita di dati, identiche all’originale).
Magari non ci saranno grosse differenze nel risultato finale: se assaggi una torta cotta in forno, ed una torta cotta in una stufa, forse non sarai in grado di capire quale delle due è stata cotta in un modo o nell’altro (anche perché tra le due c’è meno differenza di quanta ce ne sia tra due torte cotte nella stufa in momenti diversi, proprio perché la temperatura della stufa è molto più variabile), ma la torta cotta nel forno, sempre cotta alla stessa temperatura, in modo omogeneo, ti da di più l’impressione di una cosa “prodotta in serie” che di un piatto cucinato in casa.
Mi sembra un paragone davvero azzeccato! Grazie per averlo condiviso.
E’ proprio vero: io mi accorgo che, per quanto cerchi di standardizzare il processo (registrare i parametri, uniformare le preparazioni, ecc) il risultato di due stampe dello stesso negativo non è mai uguale.
Ancora di più, poi, se si devono fare mascherature o bruciature di una certa entità: è impossibile posizionare scientificamente le mani nello stesso ed identico modo!
Sottolinei quindi un aspetto essenziale: ogni stampa è quasi come fosse un quadro, nel senso che è un’opera unica. Ed è un po’ quello che mi “frena” sul bianco e nero digitale: finirei per sentire “meno unica” (e “meno mia”) un’operazione eccessivamente ripetibile.
Anche se per qualcuno questa è una seccatura! (La non ripetibilità, intendo). 😉