Il talento è sopravvalutato?

On 15/09/2014 by Nicola Focci

Il 17enne Bobby Fischer alle Olimpiadi di Scacchi del 1960

Io non lavoro con l’ispirazione. L’ispirazione è per i dilettanti.

Io, semplicemente, mi do’ da fare.

(Chuck Close)

“E’ un artista di talento!”

Quante volte abbiamo sentito questa frase? Di fronte a un quadro o una fotografia o una canzone, restiamo estasiati… non sapendo nulla o quasi del lavoro che è dietro… e ci facciamo l’idea che sia frutto dell’ispirazione geniale, del talento appunto.

E’ un modello spesso proposto dai media, cinema e televisione:

  • L’inventore che ha il colpo di genio: da solo, all’improvviso, senza alcun pregresso e/o aiuto dal mondo circostante.
  • Il geniale musicista che conduce una vita sregolata ma sul palco sa regalare picchi d’interpretazione indimenticabili, come fosse in una prodigiosa campana di vetro.
  • Il pittore che, colto da improvvisa ispirazione, realizza il capolavoro come se gli fosse stato in qualche modo “infuso” nella testa e nelle mani.
  • …e così via.

Se però si analizza la biografia dei “grandi”, ovvero di quelli che la società ci presenta come talentuosi ed unici, le cose non stanno proprio così. Vediamo un paio di esempi.

Bobby Fischer

Forse il più grande scacchista del XX secolo, estremamente precoce, capace di intuizioni geniali, spietato.

Fece il suo ingresso nel gotha scacchistico a soli 13 anni, quando (ragazzino sconosciuto) batté il pluricampione Donald Byrne che aveva il doppio dei sui anni.

La forza di Fischer stava nel non farsi scrupolo a violare un intero set di regole, pur di condurre l’avversario in una falsa zona di sicurezza. I suoi geniali “sacrifici” (concessione di pezzi importanti all’avversario) tendevano trappole mortali, riconosciute quando ormai era troppo tardi.

Queste capacità però furono frutto di un esercizio analogamente spietato.

Quando era ragazzino, Fischer portava con sé la scacchiera ovunque: persino nella vasca da bagno.

La sistemava su una sedia accanto al letto, in modo che lo studio delle posizioni fosse l’ultima cosa della giornata e la prima della successiva.

Oltre a questo, si sottoponeva ad un incessante ritmo di gioco, aiutato da un intelligente mentore (Jack Collins) che lo fece incontrare con diversi maestri. Giocava persino da solo, ruotando la scacchiera e impersonando ora i bianchi ora i neri.

Certamente, quanto sopra si fondeva con una memoria considerevole, una notevole capacità di concentrazione nello studio, ed un ego sconfinato. Aspetti importanti, ma non sufficienti se presi da soli.

John Coltrane

Per chi non conoscesse il jazz e John Coltrane, credo sia sufficiente guardare questo video. Il brano è “Giant Steps” (1960), e lo spartito segue la melodia suonata dallo stesso Coltrane.

E’ impressionante, vero? Questo “danzare” di note non appena finisce il tema principale (da 0:36)… ed il fraseggio virtuosistico di Coltrane, che avvolge e ipnotizza, oltre tutto non secondo schemi casuali ma precise regole e meccanismi difficilmente colti dal neofita (come me, ma mi fido dei conoscitori di musica che ciò sostengono).

Eppure Coltrane fu tutt’altro che un bambino prodigio stile Mozart.

Anzi, a diciotto anni era “solo” un musicista discreto, senza guizzi o lampi di genio.

Ciò che fece la differenza, di nuovo, fu l’unione di due fattori: uno studio serrato e micidiale, e l’immersione in un ambiente musicale fecondo e vivo come quello di Philadelphia del dopoguerra.

Ricorda la cugina Mary: “John si esercitava praticamente sempre. Vivevamo tutti in quattro stanze e lui suonava di continuo, davanti allo specchio… i vicini erano a pochi metri, esasperati”. Studiava persino nel camerino, tra un’esibizione e l’altra. Si dice che arrivò a farsi limare gli incisivi superiori, in modo che il bocchino dello strumento aderisse meglio.

E quanto all’ambiente, Coltrane assorbiva jazz per osmosi, facendolo diventare un fatto personale, una parte di sé stesso. Si apriva ad ogni esperienza, e trovò un terreno fertilissimo. Non si fermava mai… come dimostra un gustoso aneddoto su lui e Miles Davis!

Di nuovo: applicazione serrata, e condizioni al contorno.

In fotografia

A ben pensarci, di “bambini prodigio” in fotografia ne esistono pochissimi. Mi viene in mente Francesca Woodman… che però era figlia di artisti, quindi aveva respirato arte sin dalla culla: le condizioni al contorno ne fecero una predestinata.

Ecco dunque il senso del famoso aforisma di Henri Cartier-Bresson, “Le tue prime 10000 fotografie sono le peggiori”: l’occhio è come un muscolo che va allenato. Non dobbiamo deprimerci di fronte agli scatti dei grandi maestri, pensando che “io non riuscirò mai a fare fotografie così”! Semmai, dobbiamo sentirci rassicurati dal fatto che il “talento” non è qualcosa di magicamente saldato nel DNA, ma deriva anche da un aspetto alla portata di tutti: la pratica.

E certo sarebbe stato meglio (parlo per me) cominciare a sei o sette anni!, ma nulla ci è precluso, e da adulti abbiamo anche la chance di poterci esercitare in modo oculato e mirato, avendo già le idee più o meno chiare sul tipo di fotografia che ci interessa.

L’altro aspetto cruciale è quello delle condizioni al contorno. Ho sempre sostenuto l’importanza dei workshop e delle letture portfolio, così come l’analisi dei classici. Credo, in effetti, che non bisognerebbe mai smettere di leggere e confrontarsi. Se poi troviamo anche un buon mentore in grado di instradarci, tanto meglio!

Tutto questo, però, non per esibirlo in modo sterile; ma per farlo nostro. Un po’ come l’osmosi di Coltrane.

Si diventa artisti, come diceva Picasso, rubando e non copiando: cioè prendendo spunti, e facendoli propri.

Insomma: il talento è sopravvalutato?

Direi proprio di sì.

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