Fotografare solo per se stessi: possibile?
Sono due anni che non riprendo in mano il diario, e pensavo che non avrei più ripreso questa abitudine infantile.
Ma non è una ragazzata, è dialogare con se stessi, con la parte vera, divina, che vive in ogni uomo.
(Lev Nikolaevic Tolstoj)
Qualche tempo fa ho incontrato un amico appassionato di fotografia come me.
Ci siamo messi a chiacchierare dei grandi maestri, di fotocamere (argomento che non amo, ma sembra inevitabile discuterne) e dei nostri progetti.
In merito a quest’ultimo punto, lui mi ha spiegato di disinteressarsi completamente al fine ultimo delle fotografie che scatta. <<Per me, la fotografia è come lo yoga o una forma di meditazione. Sono da solo, nel bosco, con la mia fotocamera; non voglio nessuno; non mi interessa cosa ne farò; scatto solo per me stesso.>>
Da questa riflessione, la domanda di cui al titolo: si può davvero fotografare anche solo per sé stessi, senza voler mostrare le proprie opere?
Diari e leoni
Certamente sì: mica ce lo prescrive il medico, di mostrare le nostre fotografie!
Oh, capiamoci: io lo trovo limitante. Riempire i nostri archivi – siano essi digitali o meno – di “sforzi visuali” che vedremo solo noi!, sembra quasi uno spreco di tempo e di risorse.
Del resto, però, si fanno tante cose solo per noi.
Un classico esempio è quello del diario: io, per esempio, ne tengo uno praticamente da quando ero diciottenne. Ho impiegato (e impiego) molto tempo a scrivere pagine e pagine che non mostrerò mai a nessuno, proprio a mo’ di meditazione, e per quel sottile e nostalgico piacere di rileggere il mio stato d’animo di un anno fa, cinque anni fa, dieci anni fa…
E’ da criticare?, direi proprio di no, si tratta di un fatto personale e quindi non opinabile. Abbiamo scritto, anzi, su quanto sia importante la spinta personale anche in fotografia… e se questa spinta è rivolta solo “verso l’interno”, non si può biasimare.
Non dimentichiamo, infine, il famigerato leone della Metro Goldwyn Mayer:
“Ars Gratia Artis”, ovvero “L’arte solo per se stessa”: i vantaggi pratici non dovrebbero essere rilevanti, quando si parla di arte.
E se fosse un alibi?
Il problema, semmai, sussiste quando si fa fotografia solo per sé perché non si ha il coraggio di mostrare i propri scatti ad altri. La storia della “meditazione zen”, insomma, diventa un alibi.
Questa è una forma malsana di fotografia… che a parer mio andrebbe curata.
Dubito che la cura si possa trovare in rete, cioè avendo il coraggio di mostrarsi solo lì; perché è troppo facile. Persone che non conosco, nickname su Flickr o Twitter, soggetti i cui commenti acidi mi colpiscono di meno perché “velati” dalla tastiera con la quale sono composti…
No no: il coraggio va trovato di fronte a persone in carne ed ossa, perché prima o poi la fruizione delle nostre fotografie – se vogliamo perseguirla – arriverà lì.
Con le mani nella marmellata
Attenzione: non sto ridicolizzando questa mancanza di coraggio.
La proviamo tutti, e la provo anche io!
E questo perché, alla base, è un discorso atavico, recondito. Quando si parla di coraggio, infatti, inevitabilmente salta fuori anche il termine “paura”; e, nello specifico, è la paura di essere scoperti. Qualcosa di molto simile al perdere i pantaloni in pubblico! Nasce dalla nostra infanzia: la paura di essere beccati con le mani nella marmellata, di prendere la sgridata.
In questo caso, la marmellata è il nostro Io… che inevitabilmente emerge dalle foto. Le nostre paure, i nostri sogni, le nostre ossessioni… eccole lì, davanti all’osservatore in carne ed ossa. Ci hanno scoperti! E fa male.
La metropolitana
Non ho nessuna ricetta speciale per affrontare la paura, che non sia quella di considerarla come il treno della metropolitana.
Avete presente quando siete sulla banchina, e passa il treno? Beh, io mi spavento sempre un po’. Luci, spostamento d’aria, frastuono… ma nessuno fugge: semplicemente, si accetta che il treno passi, sapendo che non può farci nulla.
La stessa cosa vale per la critica, l’opinione altrui
Il tocco del nervo scoperto provoca dolore, certo; ma poi passa. Non provoca danni permanenti. Rimane un fatto circoscritto all’opinione di colui che l’ha espressa… il quale, spesso, conta meno di zero. E se conta qualcosa, può comunque aiutarci a crescere e migliorare.
E allora lasciamola passare, la critica! Ma non usiamola come pretesto per cadere nella trappola del “sai, io faccio fotografie solo per me stesso”.
La sincerità verso noi stessi, prima di tutto. E allora sì, ci può stare tutto: anche la fotografia solo per il proprio archivio.
Interessante riflessione!
Anch’io conosco persone che non sentono la necessità di condividere il loro lavoro. Io stesso non sarei molto propenso a condividere, ma penso che la fotografia è espressione e non ha molto senso esprimersi… a se stessi!
A parte questa considerazione, senza condividere , non c’è crescita… senza sapere se il messaggio che vuoi veicolare arriva anche ad altri, non puoi sapere se il tuo modo di fare fotografia “funziona”…
Purtroppo, è vero, molte persone che dicono di scattare per sè, in realtà temono il confronto o forse pensano di non essere in grado di recepire eventuali commenti fatti.
Concordo con te, Stefano: per imparare qualcosa, è necessario aprirsi. Che poi, se ci pensi, nella storia dell’umanità è sempre stato così: chi alza le barriere e resta chiuso nel suo orticello, non progredisce. E tutto sommato va contro l’evoluzione, perché da sempre siamo esploratori…
Poi, ecco, non posso escludere che c’è chi usa la fotografia come una sorta di meditazione.
Per dire: da un paio di mesi ho iniziato a fare running, e la cosa che più mi piace (al momento) non è tanto migliorare le medie o la quantità di strada percorsa, quanto il fatto che mentre corro non penso a nulla se non a correre. Non ascolto nemmeno la musica: azzero qualunque pensiero, mi sintonizzo su me stesso (ma sempre senza pensare a qualcosa di specifico), e praticamente passo mezz’ora di “stacco” da tutto.
Non ho mai fatto meditazione, ma suppongo che il concetto sia grossomodo quello.
Poi incontro certi anziani che mi “sverniciano” e mi umiliano (!), ma tutto sommato non me ne curo eccessivamente.
Per ora! 😉
Per me la fotografia è sinonimo di condivisione, mi piace confrontarmi per apprendere sempre cose nuove. Il primo passo per non avere paura penso sia l’accettazione di se stessi, la paura del confronto deriva da una scarsa autostima che però si può acquisire anche se non è un processo così facile e immediato.
E’ vero, lavorare sull’autostima è complicato e faticoso. Anche perché si impara soprattutto prendendo cantonate… e quindi mettendosi in gioco. Insomma, è il famoso cane che si morde la coda: per imparare a non avere paura, bisogna non avere paura! Un po’ come fanno i bambini piccoli quando imparano a camminare: se sapessero “scientificamente” a cosa vanno potenzialmente incontro, e avessero solo paura, non ci proverebbero mai. Si dice spesso che, ogni tanto, dovremmo tornare bambini (come atteggiamento in queste cose) e lo credo anche io. Spesso siamo bloccati dal nostro vissuto (le fregature che abbiamo preso, le umiliazioni che abbiamo subito, ecc.) ma non è affatto detto che il passato si ripeta. Il bambino ha una memoria “vergine” e questo lo aiuta moltissimo.
Io parto da un principio, la fotografia che faccio è un documento, per così dire, che mi ricorda gli attimi passati e mi fa rivivere quei momenti e in più può farmi rivivere, anche, lo stato d’animo di quel momento particolare. Inoltre fotografare mi piace proprio come azione fisica. E tutto questo sarebbe già sufficiente, per me, ma non nego che il fascino e la paura di mostrare il proprio lavoro agli agli altri sia anche un fine giustificato e spero un giorno di finire alcuni progetti cominciati e non ancora portati a termine e mettermi finalmente alla prova.
Ne vale sicuramente la pena, Sergio! E non posso che consigliartelo. Anche perché le critiche costruttive aiutano a crescere. Migliorare aiuta anche quando si fa fotografia solo per sé, ma è difficile migliorare da soli.