Fotografia e jazz
Cos’hanno in comune Miles Davis e Minor White, oppure Thelonious Monk e Daido Moriyama?
Più ascolto jazz (anche se non lo faccio da molto) è più noto forti similitudini tra questo genere musicale e la fotografia.
Muoversi fuori dagli schemi
Il solista jazz è continuamente in bilico su una sottile linea che separa il mestiere dalla follia, il comprensibile dall’oscuro, l’umano dal sovrumano. Le sue scale sono imprevedibili, le sue dinamiche sconvolgenti.
Anche molte ed esaltanti immagini del passato sono state ottenute così: girando improvvisamente le spalle alle regole.
Richiede coraggio, naturalmente… e consapevolezza. Ma noi siamo così. L’essere umano è così. Perché camminando il bilico, senza mai cadere, si assapora il percorso come non mai. E spesso è questo – più che la destinazione – quello che ci gratifica di più.
Avere una base ritmica solida
Nel post “L’importanza del soggetto: un insegnamento dalla musica” riflettevo sul fatto che l’equivalente in fotografia del ritmo, è a mio parere la composizione.
La musica jazz ha una base ritmica solidissima – batteria e contrabbasso formano una fenomenale impalcatura – che fornisce un perfetto “tappeto” per le evoluzioni del solista.
Non dobbiamo quindi dimenticare che anche le nostre composizioni devono essere così: molto solide… ma non in modo fine a se stesso, bensì per supportare il nostro messaggio.
Usare la tecnica in modo inconsapevole
I solisti jazz hanno una tecnica mostruosa, ma la usano in modo completamente automatico ed istintivo.
Solo in questo modo riescono a costruire delle dinamiche mai noiose ed entusiasmanti.
Questo vale anche in fotografia. La tecnica è importante, però deve rimanere un mezzo per un fine… e, in definitiva, un automatismo. Altrimenti, se ne diventa schiavi; e le nostre immagini saranno solo esercizi stilistici privi di messaggio.
Perseguire obiettivi ‘giusti’
Gli standard jazz (temi musicali che nel tempo sono diventati “un classico”) hanno sempre una struttura, così come – logicamente – un inizio ed una fine. La progressione di accordi è predefinita.
Ciononostante, i musicisti hanno la massima libertà di azione; tanto che di uno stesso standard possono esistere versioni molto diverse.
Si può dire che lo standard jazz funga da guida, ma non definisca in modo preciso. In questo modo, lascia tutto lo spazio necessario per esplorare e inventare.
La stessa cosa dovrebbe valere per gli obiettivi di progetto della nostra fotografia. E’ opportuno sapere dove si vuole andare; ma ciascuno deve essere libero di scegliersi la propria strada. L’obiettivo non deve essere eccessivamente vincolante.
Prendersi i propri tempi
Una composizione jazz può durare molti, moltissimi minuti.
Nessuno corre dietro ai musicisti. Non sono vincolati a un tassametro o a un copione rigido. Non hanno bisogno di “sparare” tutte le scale veloci all’inizio, o a metà, o alla fine.
Si immergono completamente in quello che stanno facendo, e diventano tutt’uno con la loro musica, e con il pubblico.
Questa è l’apoteosi della spontaneità, che dobbiamo sempre perseguire quando usciamo a fare fotografie. Niente ansia da prestazione, niente scatti a raffica, niente lavori a cottimo.
John Coltrane, “Mr. P. C.”, dall’album “Giant Steps” (1959). La foto di copertina è di Lee Friedlander.