Nan Goldin: il diario rivelato
La macchina fotografica non c’è, esiste piuttosto una relazione, perché accetto le cose così come sono. Per questo non proietto niente sui soggetti, anzi faccio in modo che non diventino altro rispetto a ciò che sono. Non ho alcun pregiudizio, nessuna aspettativa. Le persone non devono recitare una parte per me, non mi devono dare quello che voglio. Ciò che mi spinge a fotografarli sono i sentimenti che nutro per loro: rispetto, amore, e spesso attrazione fisica. Non voglio cambiare nulla, né farli essere ciò che non sono, né imprimere su di loro il mio segno.
Non amo particolarmente l’uso “violento” della fotografia, cioè quel genere di scatto che vuole essere forzatamente sopra le righe o raccontare in modo esplicito il dolore. Preferisco le storie positive, o comunque quelle che fanno riflettere in modo non necessariamente doloroso.
Quando però questo tipo di immagini possiede una “vetta artistica” in grado di solleticare il mio occhio cerebrale, non posso non apprezzarla.
E sono altresì convinto della necessità, per un fotografo, di essere eclettico e frequentare anche quegli ambiti o progetti che di solito non prende in considerazione. Come i mattoncini dei LEGO, possono costruire qualcosa di interessante dentro la sua sensibilità.
Anche perché, come vedremo, alcuni concetti di base si possono applicare a prescindere dal contesto.
Intimità rivelate
Di recente ho approfondito la fotografia artistica di momenti intimi, che di fatto rappresenta un’evoluzione estrema delle fotografie di famiglia che tutti abbiamo avuto o fatto. L’obiettivo della fotocamera si rivolge non più all’esterno delle mura del fotografo, ma all’interno; con una caratterizzazione di stili e di temi spesso particolare (e aggiungerei “disturbante” per un occhio non abituato).
Una sorta di “autopsia fotografica” che scava dentro la propria vita vera ed emozionale, insomma.
Tra i vari artisti che appartengono a questo genere (Nobuyoshi Araki, Larry Clark, Juergen Teller, Tina Barney…) abbiamo già incontrato Mitch Epstein, e in questo articolo tratteremo l’esponente forse più famoso: Nan Goldin.
Nancy “Nan” Goldin nasce a Washington DC nel 1953 da una famiglia ebrea della classe media, che abbandona molto presto (a tredici anni) trasferendosi a Boston. L’amicizia col fotografo David Armstrong la porta a conoscere la comunità gay e transessuale di quella città, che diventa il soggetto dei suoi primi progetti fotografici.
Dopo la laurea alla SMFA, Goldin si trasferisce a New York e lavora alla sua prima e ben conosciuta opera: “The ballad of sexual dependency” (pubblicata nel 1985 come slideshow e poi libro).
Si tratta di un diario visuale e viscerale di momenti autobiografici, ambientato nel contesto della sottocultura newyorchese di quegli anni, tra le persone che la Goldin frequentava e/o amava: relazioni sessuali, abuso di sostanze, violenze domestiche…
La fotografia di copertina – che mi crea sempre un certo shock quando la guardo – è questa:
Successivamente, e sino ai giorni nostri, la Goldin ha in seguito prodotto altri progetti di questo tipo e cioè sempre nell’ambito del “diario privato reso pubblico”, e quasi sempre nel formato a lei privilegiato di slideshow con musica da lei stessa selezionata.
L’intenzione prima di tutto
La modalità di presentazione (slideshow) è molto importante, perché il suo è un tipo di fotografia che si apprezza non tanto negli scatti singoli, quanto nell’insieme, nella globalità del progetto. La si sfoglia come le pagine di un diario, altrimenti diventa impossibile cogliere i personaggi e le relazioni tra essi.
Ecco uno di quei concetti generali di cui scrivevo all’inizio: ricordiamoci che l’intenzione è sempre centrale e cruciale in fotografia!
E’ anche un tipo di fotografia dove l’aspetto tecnico è decisamente secondario, quasi trascurato.
La Goldin non lo nasconde affatto: quando le venne chiesto come mai abbia usato il colore, rispose semplicemente che “ho usato la prima pellicola che avevo nella macchina, ed era una pellicola a colori”. (Vi immaginate di esordire così in un forum di fotografia?, probabilmente sareste massacrati!!). Può sembrare un controsenso rispetto al concetto di intenzione che si citava prima, ma invece è proprio in coerenza con esso: quando scriviamo un diario, infondo, non ci preoccupiamo eccessivamente dello stile e della grammatica. L’assenza di tecnica è un espediente atto a perseguire la fusione intima coi soggetti.
Ciò non toglie che le fotografie di Nan Goldin posseggano un elevato grado di sensibilità estetica.
Aspetti etici
Non c’è dubbio che foto di questo tipo siano “disturbanti”: basta vedere la prima dell’articolo, la cui didascalia (“Nan, un mese dopo essere stata picchiata”) è quasi superflua.
Ma la presentazione di storie così intime e sconvolgenti nell’ambito di un progetto artistico, mette al riparo il progetto stesso dal biasimo e dalla disapprovazione, quand’anche esso possa offendere il buon senso comune.
Ovviamente non sono io a dirlo, ma il fatto che queste opere vengono esposte nei musei e trattate come arte a tutti gli effetti, risultando affette da censura solo quando si “sfora” nell’ambito della fotografia pubblicitaria.
Può sembrare un espediente: “se è artistico, tutto è concesso!”. Ma l’arte in realtà è, per l’autore, una “zona di conforto” dove egli può essere libero di esprimersi senza doversi misurare con i compromessi e i filtri della realtà. Nell’arte non abbiamo la preoccupazione del quieto vivere: quel “blocco” che t’impedisce di insultare un parente che non puoi proprio sopportare, dire le peggiori cose al tuo capo, agire senza alcun filtro incurante delle conseguenze. Nella vita reale, tutto questo è necessario (altrimenti finiremmo per complicarla); nell’arte no. L’arte deve essere, per definizione, priva di ingessature.
Il balsamo
La Goldin raggiunse il successo (nei primi anni ’90) per pura serendipità: la sua iniziale motivazione, infatti, non aveva nulla a che fare con l’esibire le proprie opere o col compiacimento.
Nel suo caso, infatti, la fotografia è stato un vero e proprio veicolo di salvezza nell’ambito di una vita travagliata da eccessi e droghe. Lo afferma l’artista stessa:
Ritorna quel concetto a me molto caro di arte che nasce dal disagio, e che – in qualche modo – funge da balsamo in grado di lenire il disagio stesso.
Ed anche questo è, credo, un concetto applicabile a qualunque contesto artistico.
Nan Goldin… non la conoscevo fino a poco tempo fa… l’ho “scoperta” guardando un documentario sulla fotografia. Nello stesso documentario ho conosciuto altri grandi fotografi le cui opere mi hanno messo un po’ a disagio. in particolare, Larry clark (anche se le sue foto, se ho capito bene, non sono “private”), e Araki (di cui avevo visto le foto della serie winter journey, ma non ricordavo più il nome del fotografo!).
Nonostante il disagio, ho un po’ approfondito questi fotografi per ragioni molto simile a quelle che descrivi tu.
Sono molto d’accordo con te sull’eticità delle foto della Goldin. A maggior ragione perchè nascono in maniera molto intima e con intenzioni che sembrano molto genuine. Anche la foto della Goldin, ha una grande ragione di essere… e penso che (purtroppo) sia molto attuale e abbia ancora una grande forza di denuncia di un fenomeno deplorevole.
Sul discorso della tecnica, secondo me, c’è da fare una considerazione. Penso che i grandi della fotografia (e la Goldin appartiene a questa categoria) applichino la tecnica in modo tanto naturale da sembrare (o essere) inconsapevole, ma la applicano tanto quanto gli altri. insomma, mi viene in mente la famosa frase:
“il calabrone secondo le leggi della fisica non può volare. Ma il calabrone non lo sa…e perciò continua a volare”
😉